Allora, adesso
metto qui il testo della poesia che io e il Ciccio (adesso lo smilzo) ci faceva
piangere dal ridere quando eravamo al Messedaglia, quello che questa poesia mi
fa sperare è che forse anch'io sono stato scelto dal nostro Signore (Jehovah)
di ricevere una malsania (il trauma cranico) che mi aprirà le porte del
paradiso, dopo tutte le sofferenze atroci che questa malsania mi ha fatto
patire per circa 10 anni.
Comunque adesso
metto qui il testo di questa poesia rivelatrice, così magari o ve la ricordate
o - rileggendola - la capite meglio:
O Signor, per
cortesia,
manname la
malsanìa!
A mme la freve
quartana,
la contina e la
terzana,
la doppla
cotidïana
co la granne
ydropesia.
A mme venga mal
de dente,
mal de capo e mal
de ventre;
a lo stomaco
dolur’ pognenti
e ’n canna la
squinanzia.
Mal dell’occhi e
doglia de flanco
e la postema al
canto manco;
tiseco me ionga
enn alto
e d’onne tempo
fernosìa.
Aia ’l fecato
rescaldato,
la melza grossa e
’l ventr’enflato
e llo polmone sia
’mplagato
cun gran tòssa e
parlasia.
A mme venga le
fistelle
con migliaia de
carvuncilli,
e li granci se
sian quelli
che tutto replen
ne sia.
A mme venga la
podraga
(mal de cóglia sì
me agrava),
la bisinteria sia
plaga
e le morroite a
mme sse dìa.
A mme venga ’l
mal de l’asmo,
iongasecce quel
del pasmo;
como a can me
venga el rasmo,
entro ’n vocca la
grancia.
A mme lo morbo
caduco
de cadere enn
acqua e ’n foco
e ià mai non
trovi loco,
che eo afflitto
non ce sia.
A mme venga
cechetate,
mutezza e sordetate,
la miseria e
povertate
e d’onne tempo
entrapparìa.
Tanto sia ’l
fetor fetente
che non sia
null’om vivente,
che non fuga da
me dolente,
posto en tanta
enfermaria.
En terrebele
fossato,
che Riguerci è
nomenato,
loco sia
abandonato
da onne bona compagnia.
Gelo, grando e
tempestate,
fulgure, troni e
oscuritate;
e non sia nulla
aversitate,
che me non aia en
sua bailìa.
Le demonia
enfernali
sì mme sian dati
a menestrali,
che m’essèrcino
en li mali,
ch’e’ ho
guadagnati a mea follia.
Enfin del mondo a
la finita
sì mme duri
questa vita
e poi, a la
scivirita,
dura morte me sse
dìa.
Allegom’en
sseppultura
un ventr’i lupo
en voratura
e l’arliquie en
cacatura
en espineta e
rogarìa.
Li miracul’ po’
la morte,
chi cce vene aia
le scorte
e le deversazioni
forte
con terrebel
fantasia.
Onn’om che m’ode
mentovare
sì sse deia
stupefare
e co la croce sé
segnare,
che reo escuntro
no i sia en via.
Signor meo, non
n’è vendetta
tutta la pena
ch’e’ aio ditta,
ché me creasti en
tua diletta
et eo t’ho morto
a villania.
In un periodo dominato dal
terrore dei mali fisici, le invocazioni di Jacopone dovevano veramente
provocare un effetto dirompente. Particolarmente interessante risulta, nella
parte conclusiva della lauda, la rappresentazione rovesciata dei segni della
santità e della devozione: al posto delle reliquie dei santi, Jacopone propone
come reliquie a ricordo della sua esistenza le feci del lupo che lo ha
divorato, al posto dei miracoli, seguito da spiriti maligni, tormenti e deliri.
Il rapporto conclusivo col tema della passione rivela il significato profondo
delle richieste del poeta: seguire il cammino del martirio e imitare Cristo
escludendo però, attraverso la degradazione delle sofferenze abbracciate, ogni
aspetto di gloriosa salvezza dalla
propria vicenda.
L'attacco al corpo esprime in
Jacopone disprezzo e odio verso tutta la parte materiale e naturale di se
stesso. L'annientamento è totale anche sul piano umanamente intellettuale e
morale. Il poeta manifesta un rifiuto globale della dimensione terrena e umana
sviluppando fino alle estreme conseguenze la tradizione ascetica medioevale del
disprezzo del mondo. C'è quindi un aspetto autopunitivo del corpo.Jacopone
parla di punizione corporale per espiare i peccati appartenenti al genere umano
e guadagnare la vera vita, quella spirituale di annullamento nel divino e
questo lo collega all'ideologia diffusa in quel periodo sulla morte.
Tutte le scene di sofferenza,
malattia, orribile morte e disfacimento che Jacopone propone non sono quindi
motivo di terrore. La morte per quanto orribile non viene fuggita ma invocata come possibilità di liberazione
dalla prigione terrena e di conquista della beatitudine spirituale.
In questa poesia, che è una lode, rovesciando le consuete preghiere rivolte
dagli uomini a Dio di essere preservati dai mali, Jacopone da Todi (1230/36 -
1306) chiede che gli venga scaricato addosso un cumulo interminabile e
raccapricciante di malattie e di sciagure completato da una morte orribile .
Chiede anche che la deformità fisica provochi orrore negli altri uomini, così
da essere schivato, emarginato, temuto, maledetto. E tutto ciò non è comunque,
secondo l'autore, sufficiente a scontare la colpa di essere parte della stessa
umanità che ha crocefisso Cristo.
Purtroppo io non avevo mai chiesto di fare un esperienza così
tremenda, però posso solo sperare di andare diretto in paradiso quando
finalmente sarò morto davvero.
- http://parafrasare.altervista.org/blog/jacopone-da-todi-o-signor-per-cortesia-parafrasi-e-commento/
- http://it.wikipedia.org/wiki/O_Signor,_per_cortesia
- http://doc.studenti.it/appunti/letteratura/signor-cortesia.html
- http://balbruno.altervista.org/index-1136.html